— Anno: 1996
— Editore: Feltrinelli
Sono passati tre anni dalla pubblicazione della prima edizione di Cuori violenti: un tempo non inutile, avrei sperato. Speravo infatti che questo libro potesse contribuire a riaprire un dibattito scomodo: quello sulle responsabilità degli adulti nei confronti delle generazioni più giovani. Ma se tentassi di trarre qualche, pur sommaria, conclusione rimarrei totalmente deluso. In questi tre anni nel paese si sono palesate volontà di trasformazione: la sinistra per la prima volta ha assunto il comando del governo, l'economia ha finalmente iniziato a risanarsi, qualche riforma strutturale - pur con le inevitabili contraddizioni - sta prendendo corpo. Insomma, il periodo di crisi sembra, ancora una volta, scongiurato, l'Italia forse entrerà in Europa assieme ai paesi economicamente più forti, i nostri conti tornano al bello, siamo quasi tutti di nuovo più ricchi. Ma nonostante l'ottimismo sfoderato dai politici e dagli economisti, non si può non intuire una latente sensazione di fastidio, forse indotta da un'imbarazzante previsione: che la fine del secolo porterà qualche ulteriore privilegio a scapito di una più definitiva conquista di serenità. Anzi, sembra proprio che si paventi una strana contrapposizione: quella, già annunciata da Freud, secondo la quale l'uomo è portato a barattare la ricerca della sicurezza con quella della felicità.
Ecco dunque affiorare e diffondersi un senso di colpa collettivo: stiamo costruendo una società razionale, basata sulla difesa di privilegi materiali, sulla collezione di oggetti, e ciò impone di rimandare la necessità di curare e di rassicurare la nostra anima, i nostri affetti. Se per un adulto può essere concepibile passare il proprio tempo a discutere di Pil o di moneta unica, come fa tutto ciò ad affascinare un giovane? Una ricerca recentemente pubblicata in Francia dice che il danaro è al primo posto tra gli argomenti che i genitori affrontano con i loro figli, mentre i sentimenti occupano l'ultimo. E se un adulto parla solo di quattrini come fa a comunicare con un ragazzo? Ripenso a questi tre anni trascorsi e mi chiedo: cosa abbiamo fatto per loro? Nulla, e si vede. Nelle ultime pagine di questo libro ho denunciato che oltre cinquantamila minorenni ogni anno commettono crimini a volte orrendi:oggi quel numero è cresciuto di un terzo, è una cifra che rappresenta una sconfitta fragorosa, ma evidentemente non abbastanza sonora da inquietare l'anima dei politici, degli educatori, dei genitori. Di noi tutti, insomma. Qualche settimana fa sono tornato in alcuni dei luoghi dove avevo incontrato i personaggi del libro. Mentre guardavo le foto appese alle pareti della comunità mi chiedevo che fine avevano fatto. Guardavo Gennarino che sorride seduto sul muretto, Gennarino non c'è più, è stato ammazzato con un colpo alla testa; di Giovanni, il baby killer della camorra, si sono perse le tracce, brutto segno; Angelica invece è in prigione,ma tra poco uscirà per tornare a spacciare nei vicoli del centro storico. Tutto previsto e tutto prevedibile. Ma perché le vite di questi ragazzi devono essere già segnate, perché lo stato si arrende prima ancora di sperare, perché tutti noi, tranne quei pochi utopisti delle comunità, abbiamo stancamente alzato la bandiera bianca? Se perdiamo Gennarino, Giovanni e Angelica, perdiamo milioni di altri ragazzi, una generazione intera. Perché qui non si parla di criminalità giovanile, non ho scritto questo libro per parlare di quello specifico: le vite che ho descritto vogliono essere delle metafore, rappresentare cioè il dramma di un'età della vita che procede spogliata di senso e di emozione. E questo accade per tanti, per troppi ragazzi. Valenza Po è una città molto diversa dai quartieri napoletani dove è finitala vita di Gennarino e Giovanni. Lassù si gode una ricchezza impressionante: macchine strepitose, gioiellerie ovunque, anche al posto dei negozi di alimentari. Valenza Po è a pochi chilometri da Tortona, ricordate quel nome? Ho un appuntamento con gli studenti dell'Istituto d'arte. L'aula è affollata, i ragazzi stanno attenti, a volte intervengono parlando della loro vita, delle loro speranze, dei loro problemi. L'insegnante di Italiano ha dato da leggere uno straordinario racconto di Buzzanti, “Il colombre”: credo che l'abbia proposto per facilitare un ragionamento sull'identità. Chiedo loro: che cosa è cambiato a un anno da quei sassi maledetti, che cosa è cambiato della vostra vita? Risposta: niente, stessi quartieri deserti, stessi pub, stesse sale giochi anonime, stesse discoteche assordanti, stessa scuola dequalificata, stessa tremenda e disperata solitudine. Eppure quel dramma è stato commentato da pagine intere di giornali, da ore dibattiti televisivi durante i quali sciami di adulti dicevano la loro in tutti i modi possibili: c'era chi se la prendeva con la società senza valori, chi diceva che erano solo dei bastardi, chi anelava un ritorno alle famiglie di una volta, con poche regole tutte da rispettare a suon di botte. Che cosa abbiamo fatto noi adulti, oltre quella penosa messa in scena di un lutto collettivo, dopo quella parvenza di pentimento nel vedere una generazione alla deriva incapace di distinguere il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato? Qual è stato il risultato di quel colossale psicodramma collettivo della società degli adulti? Nulla, il nulla più assoluto. Anzi no, per la verità una cosa concreta l'abbiamo fatta: abbiamo messo due cartelli sotto ogni ponte delle nostre autostrade. Questo abbiamo fatto. E cosa dovrebbe pensare un giovane nel vederci così cinici e ipocriti, così impotenti e superficiali? Ricordo un seminario organizzato dall'Assolombarda su giovani e lavoro: il presidente, rivolto ad un migliaio di ragazzi, ha detto “ricordatevi che nella vita ci vogliono denti aguzzi”. Ecco cosa sappiamo insegnare loro: che ci vuole cattiveria, durezza. Ma Gennarino non l'hanno certo salvato i suoi denti aguzzi, e quei canini non scongiureranno la morte di Giovanni. Se questa società riuscisse a invitare un poeta all'Assolombarda e ad ascoltare di più i suoi ragazzi invece di piantare cartelli sulle autostrade, allora potremmo avvicinarci alla fine del secolo con meno sensi di colpa e consegnare loro un progetto più responsabile e felice.