— Anno: 1998/2002
— Editore: Feltrinelli
A volte, per capire la norma occorre conoscere l'eccezione. I casi estremi servono a esplicitare le parti oscure della nostra normalità. Per questo abbiamo scelto di parlare del limite, e ci siamo spinti verso l'invalicabile, l'indicibile. Nel corso del 1996, presso la corte d'Assise di una grande città, quattro giovani, due uomini e due donne, sono stati processati per il delitto più orripilante, il delitto dei delitti: il matricidio.
Questo libro narra dunque quattro storie atroci. Non si tratta di casi noti, il lettore non ne avrà sentito parlare nemmeno dalla cronaca dei giornali. Abbiamo scelto di raccontarle attingendo alla nostra esperienza professionale, ci siamo ispirati - solo genericamente ispirati - ai fatti, quelli raccolti dagli interrogatori, dai verbali, dalle perizie, dai documenti. Abbiamo voluto salvaguardare il loro anonimato, non solo per un'ovvia questione deontologica ma anche perché a noi non interessa - e speriamo anche ai nostri lettori - mettere in luce il particolare granghignolesco, amplificare il dettaglio raccapricciante: non vogliamo sfogare la voglia voyeuristica di chi vuole assolvere se stesso consolandosi con la constatazione che il suo vicino è probabilmente - e solo probabilmente - peggiore di lui. Non siamo rimasti affascinati dal male cui abbiamo assistito e del quale abbiamo voluto scrivere, semmai ci ha interessato tutto ciò che rende le nostre vite contigue ed altre all'apparenza così estreme, e dunque lontane.
Non vogliamo rilevare la differenza tra probo e maligno, ma ogni possibile loro contaminazione, ogni possibile sfumatura tra i loro significanti. Pratichiamo due mestiere solo apparentemente diversi; il magistrato e lo psichiatra accomunati forse - almeno nella declinazione che noi accreditiamo a ciò che facciamo quotidianamente - verso le quali il lavoro ci conduce. Forse scriviamo per curiosità.
Le nostre professioni sono nate con il compito di censire e di nominare; in fondo, ancora oggi assomigliano in modo sorprendente al lavoro dei vecchi entomologi, quelli che pretendevano di conoscere trafiggendo con uno spillo le terga degli insetti e incollando sotto a quei piccoli cadaveri l'indicazione della loro classificazione scientifica: non era illusione illuministica, ma accettazione di un ruolo sociale delegato. Per secoli agli psichiatri e ai giudici è stato chiesto di rassicurare l'uomo dai suoi stessi istinti più infidi, di tutelarlo dalla sua stessa natura immorale: e il modo più semplice è stato quello di identificare qualcuno come eccezione, come diverso e di condannarlo alla ghigliottina o alle segrete di un manicomio. Oggi che la società si è certamente evoluta e perfino le nostre professioni si sono modernizzate, la paura è rimasta, abbiamo ancora bisogno dei mostri per rasserenarci. Se ogni tanto dalle cronache giudiziarie non spuntasse un Pierre Rivère - l'efferato matricida di cui Michel Foucault ha mirabilmente rivisitato l'autobiografia - saremmo tutti ancor più confusi.
A ben vedere, buona parte di una palpabile e disagevole inquietudine - di cui i più sensibili soffrono e i più cinici rimuovono - che mostra quotidianamente le sue mille facce camaleontiche, risiede proprio in una progressiva incapacità a distinguere tra il male e il bene: una forma devastante di anomia etica che impedisce a molti perfino di comprendere il senso delle nostre relazioni affettive e dei nostri comportamenti individuali. Forse è anche per questo che psichiatri e magistrati si trovano sempre più spesso a interpretare e a giudicare atti che nascono e si mimetizzano in una silenziosa patologica normalità, forse è anche per questo che perfino il loro linguaggio professionale utilizza termini volutamente ambigui: basti pensare a quanto è felicemente deresponsabilizzante per uno psichiatra poter affermare che un soggetto è borderline o per un giudice che un inquisito è parzialmente in grado di intendere e di volere.
Abbiamo scelto di scrivere le storie di questi delitti perché contengono in sé un aspetto metaforico: non si tratta solo di comportamenti - lucidi o folli che siano -che dicono della devastazione di una singola esistenza, ma descrivono - appunto, metaforicamente - il naufragio della struttura fondamentale della nostra società: la famiglia. Questo, soprattutto, ci interessa: puntare il dito sulla frantumazione morale delle nostre relazioni, sulla solitu-dine cui ci siamo consegnati e arresi, sull'indifferenza che spegne le nostre emozioni. Il matricidio rappresenta dunque la morte della famiglia: uccidendo la madre, si uccide l'altro da sé, dunque ogni residuo legame, ogni possibile vita affettiva.
Siamo convinti che tutto ciò ci competa e ci riguardi, siamo persuasi che non basti opporre una fredda dissertazione scientifica capace solo di approfondire il divario tra la società per bene e quella dannata. Scrivere un saggio è, a volte, una scelta ansiolitica per chi la compie: il linguaggio tecnico, l'analisi delle fonti, l'apparato statistico denotano spesso l'esigenza di sterilizzare il conflitto che si vuol rappresentare. In ogni caso il saggista ne esce immacolato come se anch'egli non fosse in parte respon-sabile di ciò che scrive.
Abbiamo dunque scelto deliberatamente di narrare delle storie, non di scrivere un saggio. Nostro interesse e nostra ambizione non sono parlare a una ristretta congrega di esperti della psiche o del diritto penale, ma alla gente. A quella gente spaventata che legge le cronache dei giornali percependo qualcosa di insondabile e di inquietante. Dentro un delitto, dunque anche dentro un matricidio, dobbiamo cercare di capire l'origine delle nostre paure.
Questo è l'unico senso che ha, per noi, il parlare del Male.